Ho sempre amato le finestre. Le osservavo soprattutto durante i viaggi in treno nel periodo dell’università, la mattina o la sera, quando i miei compagni di corso il più delle volte si addormentavano. E io restavo sveglia, un pò perché ho sempre dormito poco, un pò per paura di perdere la mia fermata. Ricordo che durante quei viaggi in treno scrivevo molto, avevo un piccolo computer da viaggio comprato apposta per quello. Scrivevo, dunque. Romanzi che nessuno ha mai letto e per fortuna visto che alcuni erano solo l’insieme di frasi scopiazzate qua e là, riscrivevo gli appunti della giornata, cercavo di portarmi avanti con le consegne, ascoltavo i commenti degli altri viaggiatori seduti in carrozza, assistevo a scazzi tra chi non aveva comprato il biglietto e il controllore del treno che multava, le telefonate rassicuranti di figli rivolte a genitori apprensivi, quelle di mogli in ritardo che spiegavano a marito e figli come preparare la cena, quelle tra fidanzati lontani, le risate tra colleghi dopo una giornata in ufficio. Insomma, un pò di tutto. E poi mi guardavo intorno, guardavo fuori dal finestrino la sera, quando la campagna era completamente buia e le uniche luci che riuscivo ad intravedere erano quelle delle case.
In quegli anni e negli anni successivi viaggiavo molto. Brescia, Vicenza, Milano. Lavoro e amicizie che si mescolavano. E poi fughe. Fughe dal dolore, fughe da me stessa, da tutto quello che non avevo la forza di tirare fuori. L’ho capito solo di recente e grazie ad Emanuela, la mia analista, che il dolore guarisce solo se lo si attraversa.
E comunque, durante quei viaggi, anziché fare comunella con i miei vicini di posto o stare al telefono come molti miei coetanei, preferivo guardare fuori. Infilavo le cuffie del lettore musicale nelle orecchie e mi rilassavo così. Mi chiedevo: chissà se quell’uomo che fuma è felice, se quella donna che stende i panni si sente sola, se quel bambino che guarda fuori dalla finestra con aria triste lo è per davvero o magari è solo arrabbiato con la mamma che lo ha sgridato per un brutto voto a scuola.
Osservavo le finestre delle case illuminate la sera, era bello perdersi con i pensieri, fantasticare, a volte anche riflettere. Certe volte erano solo luci soffuse, altre luci piene, altre ancora era facile intravedere da quelle finestre pezzi di mobilio, attaccapanni, quadri, televisioni, e quando proprio la fortuna girava nel verso giusto, addirittura sagome di persone. Dietro quelle finestre si nascondevano storie e vite. Le vite degli altri. Ciascuna con la propria dose di felicità e di sofferenza con la quale convivere, con i vuoti interiori e le assenze rimaste lì a sedimentare, assenze dapprima atroci e poi più simili a preziose dame da compagnia.
Era un pomeriggio di novembre, un pomeriggio in cui ero particolarmente di cattivo umore. Un pomeriggio che in tempi non sospetti avrei trascorso affogando le mie tristezze in una cioccolata calda iper calorica oppure facendomi venire il mal di testa a suon di strilli guardando Barbara D’Urso. E invece, quel pomeriggio ho deciso che no, meritavo altro. Qualcosa di più. Sì, ma cosa? Giretto a Po? Un salto al centro commerciale? Passeggiata a Cremona? Massì, dai, che magari ci scappa pure qualche foto di street. Peccato che Cremona quella sera fosse praticamente deserta. Addio street photography, quindi. Così, quasi per disperazione ho alzato gli occhi al cielo e l’ho vista. L’ho vista per questo, la finestra accesa. L’ho vista perché quel pomeriggio ero presa male e non volevo rinchiudermi in casa, l’ho vista perché in centro non c’era anima viva, l’ho vista perché non mi sono data per vinta e ho continuato a camminare. Dalla finestra s’intravedeva uno specchio di quelli antichi e un quadro tondo, forse una natura morta.
Mi sono fermata e ho iniziato a fantasticare, ad immaginare chi potesse vivesse in quella casa. Due ragazzi giovani con il loro cane, una famiglia con dei bambini?
No. La mia mente ha deciso che in quella casa ci abitano due persone anziane, sull’ottantina. Che lui è un uomo di cultura, un ex professore di lettere e filosofia in pensione, mentre lei è una donna dai capelli bianchi e gli occhiali sottili, dai modi gentili e discreti. Somiglia vagamente a Liliana Segre. E hanno anche un cane, un barboncino bianco di nome Gerry. E sono felici insieme, sono felici perché hanno trascorso la vita insieme e sanno cosa significa attraversare il mare nel pieno della tempesta. Che paura che fa non sapere cosa ci aspetta dall’altra parte della riva! Sanno bene che fatica si fa a sopportare la vita certi giorni, ma sanno anche camminare leggeri, a piedi nudi in mezzo all’erba. Perché dopo ogni guerra, dopo la devastazione, le prime cose a rinascere, sono i prati.
So di non aver inventato l’acqua calda con il Windows. Prima di me altri fotografi decisamente più noti se ne sono occupati. Gail Albert Halaban è sicuramente la più famosa. Il suo Out My Window è iniziato dieci anni fa a Manhattan nelle notti rese insonni dalla sua bambina. Gail racconta la vita delle persone attraverso immagini di ordinaria quotidianità filtrate dai vetri di finestre che, come occhi curiosi di conoscere, assorbono e riflettono momenti di vita. Il progetto è bellissimo, interessante, ma con un’unica pecca dal mio punto di vista. Il fatto che gli attimi raccontati sono attimi costruiti. Gail infatti con la collaborazione dei residenti ricostruisce la vita quotidiana delle persone, gli abitanti delle case sono perfettamente riconoscibili e somigliano ad attori pronti a portare in scena un personaggio.
È questo l’unico aspetto che mi ha lasciata da sempre perplessa. Ed è per questo che ho scelto di sposare la sua mission ma cambiandone la modalità. Nessuna delle persone che compare nelle fotografie di questo progetto sa di essere stata fotografata, se le avessi avvertite avrei perso quell’aspetto di naturalezza e spontaneità che tanto m’interessa.